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Comunicare l’architettura

Da interferenza ad affezione.


In-ter-fe-ren-za.

Dal latino, composto da inter, tra e ferire, colpire. Incontro di azioni, iniziative, interessi, idee diverse,

per lo più discordanti, o che tendano comunque a influire l’una sull’altra determinando spesso un contrasto.


L’indole dell’architetto è assimilabile a quella del rabdomante: la competenza data dalla sua formazione combinata alla sua sensibilità personale uniscono le forze per cercare le vibrazioni giuste nel terreno, gli indizi del contesto nel quale si trova ad operare. Il fine di questa attenta analisi, stavolta al pari del lavoro di un abile agronomo, è creare un innesto con cui far concrescere un nuovo oggetto costruito che potrà presentarsi simile per natura a quanto già esiste nell’abitato, e dunque mimetizzarsi con esso o, al contrario, di una specie differente. Lo scopo ultimo sarà comunque quello di formare un edificio più pregiato, più performante, più giovane, che sia in grado di far dialogare il nuovo con il preesistente.


Se per un progettista innestare il gusto estetico-funzionale della contemporaneità all’interno di un tessuto in cui la tradizione è la tacita regola che governa la comunità indigena è un’eccitante sfida, per questa comunità, così compatta nelle consuetudini e nella convinzione che forma e funzione debbano restare immutate, la sfida rischia di essere percepita come un’interferenza: un mix fatale di oscenità e inutilità.

Purtroppo, questo tipo di rifiuto è spesso conseguenza di un mancato dialogo tra il progettista e la comunità, tra l’opera eretta e l’individuo che dovrà viverla. Fenomeno in larga parte più comune nei piccoli centri urbani colpiti da un isolamento non sempre voluto ma spesso inconsciamente favorito e preso ormai da molti per dato di fatto, per cui il porsi domande, il mettere in dubbio ciò che è sempre stato non è contemplato.

Come agire allora per far cadere questo scontro apparentemente inevitabile se non accettando l’importanza di saper raccontare storie attraverso un approccio progettuale. Accettare di dover includere a monte nella redazione delle fasi dei cronoprogrammi dei progetti, anche quella delle strategie per comunicare l’architettura. Creare occasioni di dialogo tra architetti e cittadini e tra cittadini e progetto, orientati all'inclusione sociale, alla riappropriazione dei luoghi e alla ridefinizione dell'immaginario collettivo.

Sappiamo tutti che quello che un bambino memorizza nella tenera età, gli resterà poi per tutta la vita. E allora, come ci rammenta Munari, finché si è in tempo, si dovrebbe cercare di formare delle persone con mentalità più elastica e meno ripetitiva,[…], abituare l'individuo a pensare, a immaginare, a fantasticare, a essere creativo. […] Un individuo capace di capire ogni forma d'arte, capace di comunicare verbalmente e visivamente, capace di comportamento sociale equilibrato (che) […] al momento opportuno, a qualunque età, di fronte a qualcosa di sconosciuto, cercherà una relazione con quello che sa, per poter capire […] (perché) la cultura è fatta di sorprese, cioè di quello che prima non si sapeva, e bisogna essere pronti a riceverle e non a rifiutarle per paura che crolli il nostro castello che ci siamo costruiti.


Come individui, il nostro interesse più grande è riflettere insieme sul fatto che la cultura e l'arte siano valori - prima ancora che azioni - e utensili imprescindibili per la costruzione di una realtà nella quale ognuno possa crescere e la collettività divenire comunità che non guardi più al nuovo, al diverso, come attentato all’abitudine (termine che troppo spesso si confonde con la tradizione); bensì il mezzo per creare un ponte in grado di ricongiungere tradizione e innovazione, nuova forma e antica funzione.

Questo è quello che cerchiamo di fare come professionisti: quando attraversiamo gli spazi che la vita ci propone, tendiamo con lo sguardo a cercare degli elementi in grado di creare quel ponte verso il bagaglio che ci portiamo dentro e che ci arricchisce di nuovi paesaggi interiori, che diventeranno col tempo parte di una più complessa architettura di noi stessi. È il nostro sistema per indagare e comprendere ciò che ancora non conosciamo, per coltivare la nostra affezione verso i paesaggi “altri”, unico stratagemma per garantirci rinnovata intelligenza, intesa nel senso più intimo del termine.


Se dunque un certo tipo di rappresentazione fotografica è ragionata per leggere ed essere letta dal mondo dell’architettura nell’ottica di auto-promozione del progettista o come documentazione o metodo di analisi di fenomeni complessi, all’interno dell’ecosistema delineato sinora, non possiamo invece essere tanto ingenui da credere che lo stesso tipo di registro possa essere sfruttato per creare ponti e generare comprensione e accettazione. Solo con una visione più gentile e intimista - che non significa accomodante o priva di complessità - la sua potenza espressiva mostrerà tutta la sua forza.

Come le fiabe, questa fotografia è genitrice di domande, e cercare le risposte - accettando il fatto che non sempre le troveremo - aiuta a guardare oltre e a dirigersi verso nuovi immaginari: in questo risiede il suo carattere poetico ed etico, al servizio tanto dell’architetto quanto della società.


Ma anche questo genere di immagine non può bastare da sola: per riuscire nell’impresa di attutire l’impatto con gli eventi, edificare nuovi “oggetti d’affezione” e riattivare un dialogo costruttivo, che faccia dell’interferenza la madre di quella comprensione tanto agognata, la rappresentazione deve essere sostenuta dalle parole, dai gesti, dall’empatia di tanti professionisti (in primis gli architetti, i sociologi, gli antropologi, gli artisti) che smussino le ostilità o l’indifferenza di chi si sente colpito nell’orgoglio. Non cadiamo nel tranello di dimenticarci chi sono i nostri interlocutori e finire così per condurre una “lezione” invece di accompagnarli, mano nella mano, verso le risposte che interessano loro. Ancora, tutto ciò ha bisogno di tempi lunghi, pazienti.

Come possiamo pretendere che la capacità di lettura dell’oggetto architettura, dell’oggetto fotografia o dell’oggetto libro sia innata o scontata o pacifica? Pennac, riflettendo sul bambino-lettore e sul tempo che non bisogna lasciarsi sfuggire al quale si riferiva Munari, senza pietà, ci riporta alla verità dei fatti: siamo giusti: non abbiamo pensato subito di imporgli la lettura come un dovere. All’inizio abbiamo pensato solo al suo piacere. Ma il suo piacere ci ispirava, la sua felicità ci dava le ali. […] Il rituale della lettura , ogni sera, ai piedi del suo letto, orario fisso e gesti immutabili - aveva qualcosa della preghiera. […] Sì, la storia letta ogni sera assolveva alla più bella funzione della preghiera, la più disinteressata, meno speculativa, e che concerne solamente gli uomini: perdono delle offese. […] Adesso lui è solo, davanti a un libro ostile. […] Rimarrà un buon lettore se gli adulti che lo circondano nutrono il suo entusiasmo invece di dimostrare a sé stessi le proprie competenze.


Af-fe-zio-ne.

Dal latino affectio-ionis, derivato di afficere, impressionare. Nell’uso comune, inclinazione costante verso

persona o cosa.


È singolare come l’etimologia della parola “affezione” riporti al termine “impressionare”, proprio del mondo

della fotografia, l’atto grazie al quale la realtà si fa rappresentazione.

Carla Canetto, Studio Vetroblu


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